Dio è nei frammenti

Galleria Civica di Modena | 20/05 - 15/07/2017 | a cura di Daniele De Luigi e Serena Goldoni

Una conversazione con Marco Maria Zanin

DANIELE DE LUIGI: La tua ricerca scaturisce da un’intensa relazione con la civiltà rurale. Da dove ha origine?

MARCO MARIA ZANIN: È curioso che io ora stia rispondendo a questa domanda seduto al tavolo in cucina della casa dei miei nonni materni. La nonna è mancata giusto un anno fa, ma il nonno Arduino, novantatré anni, è in soggiorno sulla sua poltrona che guarda la televisione. Alle mie spalle e tutto intorno a me ci sono gli oggetti che hanno accompagnato i giorni più belli e più teneri della mia infanzia: i portacandele in legno fatti dal nonno che usavamo quando andava via la luce per le nostre cene a lume di candela, il tagliere in ulivo che raccoglie le briciole del pane da dare agli uccellini, la pentola in rame da cui raschiavo con cura la crosta della polenta della nonna, la piccola scatola intarsiata dal nonno per l’economia di comunione, il barattolo del pan biscotto con cui io e mio cugino ci facevamo grandi merende. E questo tavolo, dove facevamo il pane, la pasta fatta in casa, il pesto appena il basilico maturava nell’orto del nonno, il nocino il giorno di San Giovanni, la conserva di pomodoro ad agosto. Dove, insomma, ancora oggi ogni gesto, nella sua semplicità e nel profondo desiderio di farlo insieme, diventa un rituale. E dove il tempo, nonostante fuori il mondo si stesse trasformando sempre più velocemente, si scandiva in questi piccoli rituali collettivi stagionali che lasciavano dentro una sensazione di pace concreta, un punto di appoggio interiore che, poteva crollare il mondo, ma sentivo che quello era vero, che era solido come la roccia e da lì avrei potuto affrontare qualsiasi sfida. Il mondo dei miei nonni, nati in famiglie di quel Veneto contadino che era chiamato “il sud del nord”, ben prima del boom economico, mi è germogliato dentro fino a diventare una stella polare, una traiettoria.

DDL: È quindi un legame che si è incarnato sempre di più negli oggetti grazie al loro potere evocativo, che si trasferisce mediante la loro presenza materiale. Immagino che tra questi ci siano anche le pialle, strumenti con cui il falegname/artifex dava forma al mondo contadino e che sono rimasti pressoché identici dall’antichità a oggi. Mi pare che ti interessi questa continuità, il filo che unisce le generazioni e le epoche, ma al tempo stesso senti la necessità di intervenire su quegli stessi oggetti con azioni drastiche e irreversibili.

MMZ: Girando per i mercatini dell’antiquariato continuavo ad essere attratto da queste vecchie pialle, che vedevo usare al nonno quando lavorava il legno. Più le guardavo e più vi riconoscevo delle forme quasi archetipiche, come se le mani di questi artigiani fossero state guidate da qualcosa di profondo, un’intuizione proveniente da uno spazio umano in cui è registrata l’origine di tutto, ma nello stesso tempo dalla capacità di recepire e tradurre una specifica identità locale. Il taglio libera la forma che avevo intuito al loro interno e apre una porta, un canale. Georges Didi-Huberman dice che i resti appartenenti al passato possono essere considerati come dei sintomi di altre temporalità che pulsano sotto la superficie di quella dominante, anche se noi, che abbiamo sposato una visione lineare del tempo e della storia, non siamo abituati ad accorgercene. L’intervento mi serve per “tagliare la gola” alla descrizione dell’oggetto come utensile del falegname, ma ancor più per rompere lo status attribuito da parte delle categorie di pensiero della temporalità dominante che lo collocano come oggetto da mercato dell’antiquariato o da collezione, o ancor peggio, da museo. Queste sono abitudini, o piuttosto patologie, di una società che ha appiattito il suo orizzonte alla funzione e al consumo delle cose. Vita uguale funzione. No, bisogna aprire l’orizzonte, infliggere una ferita. Ma la ferita, citando un’espressione di Don Tonino Bello, che ho usato anche per intitolare la serie delle ‘pialle’, se siamo capaci di guardarci attraverso, può diventare feritoia: “Le ferite del Signore sono feritoie attraverso cui può entrare la luce del Risorto”. Anche nelle nostre vite le ferite spesso generano l’opportunità di un passaggio, di una ulteriore comprensione e di una rinascita. Quei tagli vogliono essere un'apertura a un’altra temporalità appartenente a una sfera primitiva, a un’estensione inconscia e collettiva che sta alla base di moltissime civiltà legate alla terra, anteriori alla civiltà moderna e ancora esistenti, ma alla base anche della nostra storia. Una temporalità che, a mio parere, è necessario far riemergere nello spazio della coscienza per alimentare il presente, come anacronismo.

DDL: Trovo che in questa azione, accanto a questa componente per certi versi drammatica, ci sia anche una forte componente ludica: il gesto infantile e gioioso di rompere per capire, ma anche per ricostruire in modo diverso, connaturato già all’uomo primitivo. Secondo Johan Huizinga giocare significa costruire un mondo e abitarlo ed è una delle molle fondamentali per il sorgere della civiltà umana, tanto da possedere un carattere di sacralità. E non dimentichiamo che la dimensione ludica è essenziale anche nelle avanguardie artistiche: rompere, osservare gli esiti del caso, ricombinare, trovare gli archetipi nell’inconscio degli oggetti è nel DNA della genealogia dada e surrealista.

MMZ: L’universo del bambino è straordinario, bisognerebbe ricordare molti autori che ne hanno parlato in questa accezione di prossimità a ciò che Rousseau chiamerebbe l’Origine.
Il problema, perdonami se banalizzo molto, è che la modernità occidentale, da quando Cartesio ha fatto coincidere il pensiero con l’essere, ha appiattito l’orizzonte sulla ragione. Abbiamo cementificato la realtà con infinite categorie di pensiero e fatto fuori la sfera del sacro circoscrivendola a quella della religione. Il bambino, ma in questo mi ci ritrovo anch’io, invece conserva una visione magica, parla alle cose, agli animali, si sente profondamente parte di ciò che lo circonda, in cui riconosce un’anima.
L’interazione curiosa e spontanea, assieme alla sensazione che le cose abbiano una vita propria, porta il bambino a smontare le cose, e questo mi ricorda molto il metodo del montaggio di Benjamin, quel procedimento che serviva a lasciare sempre aperta la porta a tutte le realtà possibili. Lo smontaggio dovrebbe essere una pratica costante per evitare che le categorie di pensiero cristallizzino tutto e non lascino spazio a quella che è una condizione permanente della vita: il divenire. Per evitare, inoltre, che si continui pedissequamente a camminare su tracciati prestabiliti senza darsi la possibilità di cambiare strada. Ed è forse questa una delle più forti prese di posizione delle avanguardie che hai citato. Credo molto, moltissimo, nella nostra possibilità di costruire le realtà. Ho da poco sperimentato alcuni dei “laboratori del fare” di Bruno Munari, un’esperienza stupefacente di libertà. Tuttavia, quanti Bruno Munari ci servirebbero affinché tutti potessimo veramente abitare un mondo come lui lo proporrebbe? Quante proposte politiche o educative sono basate sul gioco?
“Costruire mondi e abitarli” è forse una delle cose che mi sta più a cuore in assoluto, ma riguardo a questo, a parte alcuni casi, non ho molta fiducia nei confronti dell’arte contemporanea. Certo, l’arte può aiutare, può farti tremare per un momento le ginocchia, un’opera può mettere in crisi il tuo modo di vedere le cose, può forse costruire una nicchia, una stanza che possiamo abitare, già per questo ne vale la pena. Ma costruire un mondo credo sia qualcosa di più, uno spazio collettivo, plurale, multisettoriale, e riguardo a questo c’è molto lavoro da fare.

DDL: Vorrei tornare sull’azione che compi sugli oggetti, perché è in realtà duplice: alla prima fase ne segue una seconda, altrettanto importante, di traduzione. Li trasformi in immagine ritraendoli fotograficamente, a volte ne trai delle sculture, talvolta entrambe le cose. Quando Van Gogh dipinge un misero paio di scarpe, il fatto di farne il soggetto di un’opera d’arte le rende di per sé degne di attenzione (per Heidegger ciò rende possibile un “aprimento” dell’essenza del soggetto, usando un termine che ci riporta al concetto di feritoia che hai espresso prima). Lo stesso hanno fatto con la fotografia artisti come Renger-Patzsch o Weston. Se però con il tradurre preservi quell’intento di nobilitare il soggetto, il precedente trasformare ti porta oltre il realismo.

MMZ: Eclea Bosi, scrittrice paulistana, in un bellissimo libro che si chiama Memoria e Sociedade scrive che “la memoria è come un diamante grezzo che dev’essere lavorato dallo spirito”. Questa frase contiene due importanti indizi per l’elaborazione e il mantenimento della memoria: il primo è che la materia del passato dev’essere lavorata, l’altro è che lo spirito, il sentimento, deve entrare in gioco come attore protagonista. Per mantenere la memoria non basta dunque leggere libri, fare fotografie, visitare monumenti e musei, collezionare oggetti antichi, ma serve esercitare un fare, una relazione attiva che generi una trasformazione di ciò che emerge dal passato, che secondo Eclea Bosi deve venire rievocato dal sentimento. La decisione di intervenire sugli oggetti nasce da qui.
Renger-Patzch, Weston, ma anche Man Ray, Tina Modotti, Moholy-Nagy e altri artisti in quegli anni lavoravano sull’aprimento dell’essenza del soggetto attraverso la fotografia, soprattutto concentrandosi sulle forme presenti in natura. Ma forse l’esperimento più forte è stato quello di Karl Blossfeldt, che attraverso le sue alterazioni della forma ci fa vedere l’informe che sta sotto di essa. ‘Icone primordiali’ alla base dell’architettura del visibile, diceva Benjamin, che ci aiutano ad assumere i codici espressivi per trasformare il mondo in immagine, per costruire un legame tra il mondo corporeo e lo spazio immaginativo. In altre parole, le forme archetipiche che ho riconosciuto anche nelle pialle. L’archetipo è per sua essenza qualcosa di aperto, di generativo, una sorta di motore che nel divenire continua ad esercitare il suo magnetismo. In Ferite feritoie questo sconfinamento verso lo spazio immaginativo avviene, grazie alla fotografia, anche con l’aumento della scala, in cui la pialla scivola ancora più via da se stessa e cortocircuita con l’altro orizzonte di senso che voglio raggiungere: diventa totem, monolite. L’oggetto stampato sulla carta diventa segno, la bidimensionalità assottiglia il corpo fino a farlo diventare, come direbbe Hegel, materia spirituale. La riproduzione in ceramica invece, in Ferite feritoie ma anche in Restituzione, è un ulteriore passaggio di quel lavoro di cui parla Eclea Bosi: è un rifare la materia del passato anche attraverso l’interiorizzazione corporea. Non sono calchi, sono copie dal vero, ritratti fatti con la stessa curiosità del bambino che imita e con lo stesso amore del pittore che dipinge la sua amata. Quello che deriva dalle macerie delle demolizioni degli edifici di San Paolo non è un restauro, ma una restituzione, non chiudo il processo, lo lascio sempre aperto nella sua non finitezza.
Non è affatto mia intenzione “nobilitare il soggetto”, come tu dici, anzi. Io credo che le pialle, ma forse anche le macerie, siano già nobili in sé e non abbiano bisogno del mio intervento. Ciò che cerco di nobilitare, passami l'iperbole, siamo noi stessi, che dobbiamo imparare a trovare il sacro anche in questi frammenti che abbiamo posto ai margini del nostro universo.

DDL: A San Paolo del Brasile, a seguito di residenze sempre più frequenti, e ora diventate abituali, hai sviluppato una dialettica tra la dimensione locale delle campagne e quella globalizzata della megalopoli del XXI secolo. Uno dei cardini di questa dialettica è senz’altro la concezione del tempo: da una parte ciclicità e lentezza, dall’altra linearità e accelerazione.

MMZ: La mia domanda eterna – come direbbe Ana Luisa Lima - è questa: come possiamo oggi fare in modo che il rapporto con le nostre radici, tra cui quello con la terra, e le grandi trasformazioni dell’epoca contemporanea possano convivere e nutrirsi l’un l’altro? Sono convinto che il rapporto con la terra e la percezione di quello che Pasolini ha definito il “mistero contadino”, siano uno dei punti fermi da recuperare per riorientare la rotta della comunità umana. Deve rimanere chiaro che la mia non è una critica radicale alla contemporaneità: è una critica alla perdita delle connessioni dell’uomo con le radici e con la sfera del sacro, oltre che con le intime connessioni che reggono le trame delle relazioni. La modernità e le trasformazioni avvenute negli ultimi anni hanno generato soprattutto opportunità, il problema è che sono state così repentine che le nostre coscienze non hanno tenuto il passo, e capita spesso che invece di viverle in maniera consapevole le subiamo in maniera passiva generando effetti devastanti.
Ricordo che quando camminai per la prima volta a San Paolo mi prese un brivido fino all’ultimo dei capelli, una sensazione fortissima da cui poi si sono generate tante cose. San Paolo è una cosa a sé, un organismo imprevedibile costituito di moltissimi mondi e inframondi dove tutto è portato all’eccesso a tal punto da sconfinare, a volte, nell’impensabile. È la metropoli contemporanea, l’ecosistema in cui convivono i meccanismi violenti e disumanizzanti del mercato/capitalismo, sradicati dalle regole e dalla tradizione del vecchio mondo (o di quello anglosassone), ma anche retaggi di tradizioni mistiche precolombiane, culture e religioni di migranti da ogni zona del mondo, in uno scenario con enormi problematiche ma anche straordinari barlumi di Nuovo.
Da quando divido gli anni tra Padova e San Paolo cerco di far cozzare come pietre focaie, per vedere cosa accade, questi due mondi: l’uno ancorato al passato (da cui viene schiacciato), l’altro proiettato al futuro (da cui rischia di essere spazzato via). Ho però la sensazione che l’uno possa essere una buona lente per comprendere l’altro.

DDL: Maggese pare un’ode in chiave contemporanea della prima di queste due polarità. In quest'opera la terra e la luce del sole, gli elementi visibili, triangolano con l'elemento invisibile, il tempo appunto.

MMZ: Maggese rappresenta una sintesi di diversi punti cruciali della mia ricerca. Il maggese era una pratica contadina in cui si lasciava per un mese, a maggio, la terra a riposo affinché tornasse ad arricchirsi delle sostanze nutritive che aveva donato al raccolto precedente. Nelle due immagini, la terra appoggiata sul pavimento del mio studio con la forma che la luce disegna quando entra dalla finestra, e i due scatti del prima e il dopo il suo passaggio sulla terra, sono un richiamo alla stagionalità del mondo contadino, ma anche alle meridiane, agli orologi solari delle popolazioni andine, quando erano il sole e la terra a scandire il tempo e ad orientare la vita degli uomini.
C’è però anche un altro livello di lettura, che a mio parere giustifica la sua presenza all’interno della “costellazione” con Ferite feritoie e gli altri lavori. Il sonno della terra nel maggese può essere paragonato a quello dell’oblio di chi beve, nel mito, l’acqua del fiume Lete, che faceva dimenticare le cose passate. Secondo i greci, per coloro che non riuscivano a dissetarvisi c’era il tormento eterno. L’oblio permetteva di rinascere a una vita nuova. Abbeverarsi poi dalla fonte di Mnemosine, madre delle muse, era ciò che consentiva di tornare a ricordare.
Esiste una sana dimenticanza che permette alle cose del passato di sprofondare e sedimentarsi nei profondi laghi neri dell’inconscio, per poi riemergere, sotto nuova forma, come humus per il presente.

DDL: Secondo Arjun Appadurai il consumo ha trasformato l’esperienza del tempo puntando alla liberazione dall’abitudine e spingendo verso un’estetica dell’effimero, che viene valorizzato su ampia scala per addestrare il moderno consumatore. Il piacere che viene ingenerato si situa “nella tensione tra nostalgia e fantasia, in cui il presente è rappresentato come se fosse già passato”. Il tuo lavoro sulle macerie è esattamente un’inversione di questa dinamica tra passato e presente.

MMZ: Levi-Strauss, in una sua celebre frase che rima con quella di Appadurai, osservando San Paolo negli anni Trenta scrisse: “ogni nuova costruzione è già rovina”. È ciò che accade quando il consumo diventa la stella polare: l’orizzonte si restringe a un eterno presente in cui devono essere soddisfatte tutte le nostre aspirazioni. Niente è pensato per rimanere nel tempo. In città come San Paolo gli stessi edifici, a parte alcune opere di grandi architetti, sono costruiti per svolgere una funzione, senza alcuna caratteristica estetica o stilistica che rispecchi un’aspirazione a qualcosa di più elevato, o un messaggio da tramandare ai posteri. Terminata la loro funzione ne servono altri che abbiano caratteristiche diverse. Ciò che questo processo lascia ai posteri non sono neanche rovine, ma macerie.
Le nature morte di Lacuna e Equilibrio sono realizzate con i resti di queste demolizioni, molto visibili passeggiando per la città perché accumulati in grandi contenitori di ferro di fronte ad ogni cantiere. Per creare un cortocircuito tra questo processo e un orizzonte diametralmente opposto, prodotto dalla cultura italiana, che come dici tu, può innescare un’inversione della dinamica temporale tra passato e presente, ho citato Giorgio Morandi. Oltre a partire dalle piccole cose, Morandi riusciva ad estendere il tempo in maniera indefinita, elevando le famiglie di oggetti a una dimensione sacra e metafisica. Ma questa interruzione della temporalità del consumo/capitalismo avviene ancora prima della fotografia, quando ho scelto di usare il mio tempo per andare a cercare le macerie e raccoglierle, con amore. Mettere la maceria al centro è una necessaria rivoluzione copernicana. Usare come punto di partenza qualcosa che è stato svuotato della sua funzione significa poterlo riempire con qualcosa di diverso, il cui cuore non sia la sua funzione, ma la pulsazione di qualcosa di nostro, come esseri umani.

DDL: Nelle tradizioni monoteistiche Dio non dovrebbe poter essere rappresentato, e ciò spingerebbe a cercare altrove i segni della sua esistenza. “Dio è nei frammenti” – che riecheggia quel “Dio è nei dettagli” attribuito con sfumature diverse di significato a Proust, a Warburg e a Mies van der Rohe - è allora da interpretare come la ricerca di una teofania possibile? O forse un tentativo di intravvedere bagliori, magari anche indistinti, del sacro?

MMZ: Credo che l’opera degli autori che hai citato, come di molti altri che hanno lavorato in questa direzione - ma anche quella di Gesù Cristo - si possa riassumere in un unico gesto: smantellare la tensione insita nell’uomo a costruire falsi dei. Una forza cieca che costantemente sovrappone a qualcosa di puro e in costante divenire, status, sovrastrutture, etichette, slogan, ideologie, strutture di potere che ci conferiscono l’illusione del controllo e di essere qualcosa di riconoscibile e importante.
Credo che “Dio è nei dettagli” sia più che altro un monito che dice all’uomo “stai attento, non sederti a guardare ciò che sei abituato, ma rimani attivo, mantieni lo sguardo allenato e differenziato, continua a cercare l’essenza delle cose”. Secondo me è una provocazione per entrare in contatto con la parte divina dentro di noi, un atteggiamento quotidiano in cui siamo capaci di meravigliarci delle cose del mondo, riuscendo a percepire in esse la loro pulsazione e la loro vitalità, non lasciandoci sedurre dalle sovrastrutture. Dire che “Dio è nei frammenti”, significa dire che è lì che adesso c’è qualcosa che vibra, da andare a cercare e ad ascoltare. Un amico, dopo aver visto le Ferite feritoie mi ha detto che quello era un gesto di compassione nel senso etimologico del termine patire-con, sentire con. Mi ha risuonato molto perché un atto di prossimità nei confronti dei frammenti significa ricordarsi che siamo un po’ frammenti anche noi, che dobbiamo partire sempre un po’ da zero.
I frammenti – ma anche gli ultimi di Gesù Cristo, le periferie di Pasolini, i vinti di Revelli – non sono solo elementi di altre temporalità da portare alla luce per ampliare la nostra visione del mondo, sono elementi che per essere integrati richiedono all’uomo uno sforzo: alzarsi dalla sua sedia, contrastare la gravità e mettersi in cammino per percorrere delle distanze. I frammenti, in particolare, ci richiedono anche di trovare loro una nuova collocazione. Quello spazio in cui prendiamo parte nel gesto – nel gioco – di ricomporli in nuove forme, forse è anche quello che dovremmo abituarci a portare nel quotidiano per mantenere costantemente aperte le molte realtà possibili.